Eruptio et fragor colorum

Eruptio et fragor colorum Segnalato da Cristiano Arcadi

Cristiano Arcadi

Categoria: Mostre

Data: dal 20 giugno 2009 al 05 luglio 2009

Indirizzo: via oberdan 24

Provincia: Lucca

Orario di apertura: tutti i giorni dalle 16 alle 20

Sito internet: www.eugenioriotto.it

Referente: eugenio riotto

Per informazioni: 347 5756857

E-mail: eugenioriotto@gmail.com


Si intitola “ERUPTIO ET FRAGOR COLORUM. ESPLOSIONI DI COLORE” la mostra curata da Giampaolo Trotta e promossa dallo STUDIO D'ARTE RIOTTO. Cinque sono gli artisti che propone e Pietrasanta è la bellissima città che le ospita, a partire dal 20 giugno, a due passi dal famosissimo centro storico, con la cattedrale medievale di San Martino e la piazza, sede di importanti mostre temporanee di scultura e di arte contemporanea. La manifestazione è organizzata dallo Studio d’Arte Riotto .
Gli artisti proposti, come si è detto, sono cinque: LUCA FEDERICI, ANNIE GHERI, ENRICO MANTOVANI, DANIELA PAPUCCI, FILIPPO ROSSI.
La cittadina, patria di Giosuè Carducci e di Eugenio Barsanti (inventore del motore a scoppio), ospita illustri artisti come Fernando Botero e Igor Mitoraj e con questa manifestazione vuole continuare a promuovere eventi di qualità, coerentemente con il suo illustre passato
*****

Nella mostra pietrasantina sono presentate cinque maniere differenti di intendere la pittu-ra, ma unite da un sottile filo conduttore che, come è espresso nel titolo, è costituito dal colore nella sua festevole o simbolica dominante, che diviene protagonista assoluta del quadro. Una rutilante ‘esplosione’ che colpisce il visitatore come un’eruzione vulcanica (“eruptio”) e quasi ‘acustica’ (“fragor”), dalle interiori sonorità armoniche, ovattate, squillanti oppure dodecafoniche.

Passeremo, dunque, attraverso le cromie fotografiche di Luca Federici, sapientemente manipolate a livello digitale, così che oggetti reali si ‘moltiplicano’, clonandosi in serie lu-minosamente e coloristicamente surreali, dalle festevoli ascendenze novecentiste di una Pop Art italoamericana gioiosa e giocosa. Lampade dalle silhouette esotiche e dai colori irreali, arcobaleni su onirici fondali, miriadi di biciclette come in un puzzle mosaicato, tigri rampanti e volatili contro immaginifici cieli e figure di giovani donne su fondi astratti o mo-nocromatici che rammentano la Scuola di Piazza del Popolo (da Festa ad Angeli), ‘trittici’ bizantini che irradiano le loro luci virate e ‘spruzzate’, scale che perdono la propria identità ‘metamorfizzandosi’ in forme coclidi smaglianti come un logo pubblicitario si accostano a frammenti reali e non trasformati dalle reiterazioni cromatiche di oggetti più surreali della finzione (come l’edicola di san Pietroburgo) oppure a bianchi e neri dove si stagliano ‘drappi’ rossi di bandiere (Il ponte di Istambul). Foto ‘vere’ di mari sognati su pannelli lungo la strada ci aprono a spazi illusori e metafisici, dove la poetica ironica dell’autore è sempre sorretta da una tecnica ineccepibile, sospesa tra la fotografia documentaristica tradizionale e la manipolazione digitale con le sue nuove strade artistiche ancora da esplorare appieno.
Giungeremo quindi ai quadri ‘semplici’, meditati ed ironici di Annie Gheri. Un cromatismo, questa volta, ‘classico’, che recepisce la tradizione ottocentesca e la ‘macchia’ di colore impressionista, ma modernizzata attraverso una pennellata materica, un uso della spatola novecentesco, come la deformazione prospettica. Una prospettiva distorta o semplificata che coglie reminiscenze anche dal mondo del disegno infantile e tribale. Accensioni di rossi e di blu, di gialli, di vedi e di ocra che fanno delle sue tecniche miste ‘spaccati’ spes-se volte solarmente ‘sociali’, con una larvata e nostalgica, giocosa e maliziosa ironia per un ‘piccolo’ mondo scomparso, fatto talvolta di pregiudizi e di antichi ‘luoghi comuni’ (basti pensare a Rivalità o Il passaggio della svedese). Quadri paretici, quasi ‘a rilievo’, fatti di sentimenti solidi come la terra, dove rivivono umori e sentimenti, ambienti e periodi, tutto il clima di una provincia demodè ma autentica. Muri e animali arcaici, vicoli silenti di paesi qualunque di altri tempi ci portano bonariamente a ritornare alle radici, in contrasto con il turbinio cromatico e dinamico di un Sabato sera.
Ci soffermeremo di fronte a di Enrico Mantovani, nei cui quadri batte il palpito del Cosmo. forme e colori dell’anima in un viaggio formale-informale tra terre e cieli. Fantasmi luminescenti di mondi lontani in una tendenza al distaccarsi dal mondo della 'terra', per librarsi in quello dell'‘aria’ e del ‘fuoco’: è la serie di cieli cosmici, di pianeti, di visioni o intuizioni di universi sconosciuti, delle libere Energie, nelle quali la notte buia del silenzio siderale è solcata dalle luci eteree ed impalpabili, violente o roboanti di astri, pianeti e galassie in una visione cosmica e cosmogonica dell'universo, principio e fine di tutto ciò che esiste. Ma questa "odissea nello spazio", questo pulsare ritmico e sensuale, in cui ciò che è si disperde e si ricompone in cicli senza fine, non è forse altro che il viaggio dell'uomo all'interno di se stesso ed il macrocosmo, come in una sorta di neoumanesimo astronomico, rimanda al microcosmo e ai suoi insolubili nodi eterni.
Poi le tele di Daniela Papucci, nelle quali un tecnicismo ammaliante trasforma ritratti e ambienti in visioni umanamente significanti. Pur partendo sempre dal comune denominatore della figura e della forma naturalis o artificialis (lo spazio antropico) entro cui quest’ultima vive e si muove, senza lasciarsi lusingare da un astrattismo alla moda, la sua pittura, tuttavia, non può assolutamente considerarsi figurativa in senso classico e tanto meno accademico. Quella della Papucci è, infatti, una felice ricostruzione intellettuale - ma non intellettualistica - e, per taluni aspetti, metafisica della realtà: la figura si materializza, con felice intuizione, tramite un sapiente impiego del colore, spesso ‘espressionista’, e della luce che lo plasma. Una pittura ‘sapiente’, carica del retaggio della cultura classica e di quella otto e novecentesca profondamente assimilate e personalizzate, mai di anodina imitazione, ma che riesce ad essere pienamente innovativa, intingendo il pennello o la spatola (e lo sguardo acutamente anticonformista) nella più viva contemporaneità.
Infine, Filippo Rossi ci presenta i suoi quadri-sculture, che, nella loro matericità astratta, sono autentiche ‘parabole’ di vita. Rossi impiega il materiale più antico per eccellenza, la tavola, una tavola spesso di legno vecchio, nodoso e tarlato, segnato dal trascorrere del tempo e dall’uso. Su queste ‘tavole’ primitive, grezze e ruvide, ‘segnate’, egli, come un ar-tista del Medioevo ‘santo’, applica le sue tinte, le sue foglie d’oro, le sue tele, le sue incre-spature. La luce dorata si sprigiona ed ‘esplode’ simbolica dall’oscurità del legno come in un’icona bizantina e sfavilla tra colori essenziali e tutti giocati sui toni del crema, del mar-rone, dell’oro, del nero, del giallo, talora con simboliche accensioni di rossi. Un‘astrazione nella quale sta la sapiente costruzione dell’’oggetto’ artistico, la sua materia che si fa messaggio interiore; un’intelaiatura geometrica ‘logica’, dove però la ratio lascia lo spazio al soffio ineffabile e lirico dello spirito che informa e plasma la materia stessa.

Giampaolo Trotta

ERUPTIO ET FRAGOR COLORUM.
ESPLOSIONI DI COLORE
FEDERICI, GHERI, MANTOVANI, PAPUCCI, ROSSI



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